Cinesi d’italia – 意大利华人

“I cinesi sono tutti uguali”

“I cinesi hanno l’anima del commercio”

“I cinesi non muoiono mai”

“I cinesi copiano qualsiasi cosa”

“I cinesi mangiano i cani”

“Cosa ci fanno cento cinesi sotto una pressa? Le pagine gialle!”

La mafia, il cibo avariato, la pronuncia della R, l’inquinamento: scrivere dei tanti luoghi comuni che riguardano la Cina e il suo popolo richiederebbe uno sforzo narrativo che va ben oltre le poche righe di un articolo.

Stesso discorso si può fare per qualsiasi altra nazione al mondo. Guardiamo in casa nostra:

“Gli italiani sono mammoni”

“Gli italiani parlano a gesti”

“Gli italiani mangiano sempre la pizza”

“Gli italiani sono latin lover”

“Gli italiani arrivano in ritardo”

Moda, pasta, caffè, mandolino: anche l’immagine dell’Italia all’estero è piuttosto omogenea e assai poco differenziata, nonostante un nativo del Sud Tirolo non sia esattamente comparabile con un conterraneo nato alle pendici dell’Etna.

Stereòs, in greco, significa rigido, fermo, stabile, mentre tùpos significa modello. Dunque, come suggerisce l’etimologia della parola, il termine stereotipo fa riferimento a ciò che è realizzato con il procedimento della stereotipia, ovvero seguendo le impronte di una specifica composizione tipografica.

Nell’ambito delle scienze umane e nell’uso più comune, questo termine indica un modello di discorso precostituito, un atteggiamento convenzionale, generalizzato e banalizzato, che non prevede un approfondimento ma si basa su una visione semplicistica di qualcosa o qualcuno.

Lo stereotipo è indispensabile alla vita comunitaria, perché le immagini collettive raggiungono lo scopo di manifestare la solidarietà di gruppo e di assicurarne la coesione. Esse traducono la partecipazione ad una visione del mondo comune che dà ad un insieme di individui isolati la sensazione di formare un corpo sociale omogeneo.

Premesso che schernire il vicino di casa non è una novità del XXI secolo, cercare di non fermarsi all’immaginario tradizionale è un buon punto di partenza per capire chi si ha di fronte, considerando che dovremo sempre più avere a che fare con persone che nonostante i tratti somatici non esattamente mediterranei, portano sulla carta d’identità come luogo di nascita paesi e città del territorio italico.

Proviamo a smontare almeno i clichés più diffusi:

  • I cinesi sono tutti uguali: vi siete mai domandati se agli occhi di una persona cinese noi italiani siamo diversi da spagnoli, francesi o svizzeri? Considerando che ci dipingono come “pelle bianca e naso grande”, forse anche per loro i nostri connotati non sono alla lunga così diversificati.
  • I cinesi hanno l’anima del commercio: forse il venditore o l’inserviente di un negozio sono figure tra le più visibili per le strade, ma tutti quelli che producono prodotti e servizi non sono certamente sotto gli occhi di tutti ma questo non è garanzia che il loro numero sia nettamente inferiore. Anzi. L’impiego nel settore commerciale è fuori dal territorio nazionale uno dei mestieri più diffusi, ma che la rimostranza giunga dal popolo che più di tutti gli altri sul pianeta possiede ristoranti di cucina tradizionale all’estero fa sorridere. Se si dovesse fare a gara riguardo quale tipo di cucina è più diffusa a macchia d’olio fuori dalla sua madrepatria, sicuramente la pizza sbaraglierebbe l’involtino primavera.
  • I cinesi non muoiono mai: altra leggenda metropolitana sulla bocca della gente comune. Pur vero è che gran parte della popolazione emigrata cinese è di età piuttosto giovane e che gli anziani, che ne han la possibilità, preferiscono tornare a morire sotto il tetto di casa, e che anche le persone di nazionalità cinese non sono immortali. Le cerimonie funebri vengono celebrate e i loro corpi sepolti nei campisanti come quelli di tutte le altre persone. Basta fare un giro nei cimiteri, magari di città densamente popolate come Milano o Roma, per imbattersi nella sepoltura di un certo Hu, di un certo Yang o perché no di un esotico Wang. E poi, avete mai cercato loculi e sepolcri di persone albanesi, rumene, slovene o bulgare? Chissà perché il quesito sulla fine che fanno i discendenti di Mao è ritenuto così rilevante.
  • I cinesi copiano qualsiasi cosa: quando si parla di falsi, soprattutto in relazione ad abiti, gioielli ed elettronica, il principale produttore che comunemente si addita è la Cina. Quel “Made in PRC” stampato sui cartellini di milioni di prodotti, di cui una parte non esattamente di prima qualità, ha contribuito a oliare l’automatismo che abbina merce cinese a merce falsa. Anche qui, forse è bene non generalizzare, in quanto di certo i cinesi sono maestri nel riprodurre prodotti inventati da altri, ma è la domanda che genera il mercato, quindi bisognerebbe vedere chi si premura di commissionare articoli e mercanzie che assomigliano agli originali. Marchi e loghi imitati più o meno bene non scaturiscono unicamente da menti cinesi, anche se sono quasi del tutto realizzati  da mani cinesi.
  • I cinesi mangiano i cani: la consuetudine di mettere nel piatto carne di provenienza non unicamente suina o bovina è reale, ma non così frequente come si crede. Il maiale e il pollo la fanno da padrone sia in Cina che in Italia soprattutto in tempi di benessere. In zone rurali povere, o in tempi di guerra, dove trovare qualcosa da mettere sotto ai denti era decisamente più difficile che aggirarsi tra gli scaffali di un supermercato al giorno d’oggi, quando la fame si faceva sentire, non si stava a far troppo gli schizzinosi, e la differenza tra un tacchino, una pecora o un cane non era un problema su cui soffermarsi troppo. Tale e quale era la situazione nel Bel Paese qualche decennio fa, dove, difatti, si era diffusa l’etichetta di vicentini magnagati agli abitanti di una cittadina del Nord est.

Gli stereotipi funzionano come guide nella nostra continua ricerca di informazioni, sono delle etichette che apponiamo per semplificare la realtà. Il cervello ha infatti bisogno di caselle per esprimere attribuzioni di significato. Ciò premesso, passare dallo stereotipo al pregiudizio non è impresa così ardua. Se lo stereotipo è preceduto dalla categorizzazione che introduce ordine e semplicità di fronte alla complessità dell’incontro con le alterità, ognuna delle quali, essendo caratterizzata dalla propria unicità, è di difficile comprensione, la tendenza è quella di attribuire ai singoli individui (di cui possediamo conoscenze vaghe, scarse, ambigue) quello che crediamo sia caratteristico del gruppo a cui appartengono.

A dire il vero la semplice propensione a organizzare la realtà in categorie non è di per sé sufficiente alla creazione di stereotipi e pregiudizi e, di fatto, di questi fenomeni è possibile trovare una vasta e articolata gamma di spiegazioni, ognuna dotata di specifica plausibilità.

Tuttavia, iniziare ad ammettere che ciascuno di noi è esposto a stereotipi e pregiudizi e che, probabilmente, non riusciremo mai a recepire la realtà in modo del tutto libero da categorie, non significa rinunciare automaticamente a contenere e controllare questi fenomeni. Significa piuttosto diventare consapevoli di certi meccanismi in modo da non esserne agiti. Significa disporsi nell’ottica di verificare le conoscenze che ci proponiamo di acquisire e gli eventuali limiti a cui sono soggette. Significa che, nel momento in cui siamo chiamati a farci un’idea su persone o gruppi, dobbiamo cercare di arginare i possibili effetti dannosi attribuendo rilevanza non solo agli eventuali stereotipi negativi, ma anche agli altrettanto eventuali stereotipi positivi. Significa, in ultimo, cercare di combattere la rigidità delle nostre convinzioni mettendo in conto che potremmo anche sbagliare, che nessuna verità è definitiva, che qualcuno, in qualunque momento, potrebbe aggiungere qualcosa di nuovo e di diverso su questi temi.

Immagine: un momento delle celebrazioni del capodanno cinese 2017 a Milano. Fonte: qua, modificata.