“Le rane”, di Mo Yan

Il romanzo “Le rane” (蛙, 2009) di Mo Yan illustra alcuni dei temi e degli stili per i quali l’autore è stato insignito del premio Nobel per la letteratura.

Nel libro vengono affrontati in modo diretto o indiretto molti dei temi principali della storia e della cultura cinese degli ultimi cinquant’anni, visti attraverso gli occhi del narratore e il comportamento della zia, vera protagonista della storia di un remoto villaggio contadino nel nordest cinese, dagli anni della liberazione dai giapponesi a oggi.

La cornice narrativa è rappresentata dalle lettere che il narratore, il commediografo Kedou (“girino”), scrive allo scrittore giapponese Sugitani, figlio di un ufficiale ex occupante e per il quale la famiglia del narratore nutre un imperituro rispetto. In queste lettere, il narratore racconta in forma di flashback la storia del villaggio in cui è nato e dei suoi abitanti, spiegando che essi saranno il soggetto di un nuovo testo teatrale in fase di scrittura.

Il tema principale del racconto è la procreazione, la nascita, nel suo valore più personale ma anche pubblico: dopo la liberazione e dopo anni di povertà e infertilità, le donne ricominciano a partorire. Il baby boom, iniziato proprio con la nascita del narratore, è materialmente realizzato dalla zia, una ostetrica che nel corso degli anni fa nascere migliaia di bambini. In questo periodo la zia diventa una specie di dea della vita, e a lei i contadini attribuiscono poteri quasi magici.

Il governo, che inizialmente incoraggiava le nascite, comincia a limitarle con la legge “del figlio unico”. La zia, fervente comunista, aderisce alle direttive nazionali trasformandosi in una abortista implacabile, anche a costo della vita delle partorienti: persino la prima moglie del narratore muore per un aborto forzato e tardivo. Inevitabilmente, la zia viene vista adesso come un demonio, evitata e temuta.

La politica “del figlio unico”, che negli anni viene ammorbidita e poi aggirata, continua a produrre anomalie fino alle ultime pagine del libro, in cui l’apertura di un centro clandestino per le gravidanze “in affitto” coinvolgerà profondamente tutti i protagonisti della storia.

La zia, ormai in pensione e ossessionata dai sensi di colpa, troverà infine il modo per tentare di riparare i suoi torti, in una sintesi di tradizioni, sensibilità e religiosità cinese. Alla fine del romanzo, finalmente il narratore allega il suo copione ormai completato, che con uno stile onirico e straniante racconta l’epilogo della storia.

Sullo sfondo della vicenda personale del narratore viene mostrata l’evoluzione economica e politica della Cina e dei cinesi, a partire dalla miseria degli anni 50, attraverso gli anni della Rivoluzione Culturale, delle riforme, e fino ai dinamici anni 2000.

Ancora più in profondità, sono le suggestioni linguistiche e della sviluppata simbologia che percorre tutto il testo, con i vari omofoni di “wa” difficilmente traducibili tra “娃” (bambina), “哇” (il vagito dei neonati), “蛙” (la rana, animale onnipresente nel testo), e “娲” (la dea della creazione).

Il linguaggio del testo originale è semplice e diretto, ricco di espressioni popolari e proverbi, e con qualche concessione al dialetto delle campagne di Gaomi (Shandong) dove è ambientato. In attesa dell’edizione italiana, si può leggere un estratto su un articolo de La Stampa.