Per un upgrading industriale in Cina

Uno dei fattori chiave usati per spiegare l’ascesa cinese è quello della grande disponibilità di forza lavoro, a basso costo, in un quadro normativo che garantisce solo una piccola parte dei diritti acquisiti in occidente.

Tuttavia, diversi economisti sostengono che la Cina non può permettersi di basare tutto il suo modello di crescita economica sulla compressione dei salari e su prodotti di basso profilo. In articolo pubblicato sul sito Financial Times nella versione cinese, Chen Zhiwu, influente economista cinese e professore a Yale, sostiene che la Cina sia stata danneggiata dalla troppa offerta di lavoro e persino dagli orari di lavoro troppo lunghi. Ecco un estratto dalla traduzione. L’articolo si intitola “Il contesto necessario per un upgrade industriale.

I media cinesi hanno discusso a lungo del cosiddetto “upgrading industriale”, ma per parlarne adeguatamente bisogna prima definire cosa sia. La mia definizione è che l’upgrading industriale sia quel processo che incrementa il valore aggiunto e la capacità di guadagno delle imprese, garantisce maggiori guadagni al personale dipendente e maggiori dividendi agli azionisti, e nello stesso tempo può creare nuovi sbocchi occupazionali.

Qualche anno si diceva spesso che la Cina avrebbo dovuto vendere 800 milioni di camicie per poter uguagliare il costo di un Boeing. L’implicito fondamentale di questa considerazione era che la catena di distribuzione cinese dovesse essere migliorata, riducendo al massimo il tempo e le energie dedicate al lavoro, e ottimizzando le risorse per guadagnare di più.

Per rendersi conto di quali sono le sfide inevitabili per giungere ad un upgrading bisogna guardare un grafico, e rendersi conto che il numero di ore lavorate non è necessariamente un fattore positivo.

Lavoro in Cina

Nel grafico, le ascisse indicano le ore lavorate procapite in una serie di Paesi nell’anno 1998. Il dato è vecchio, ma oggi la situazione non è molto diversa. Sono evidenziati quattro Paesi, da sinistra Olanda, Stati Uniti, Giappone, Cina. In Olanda le ore di lavoro annuali erano 1350, molte meno che in Cina, con le sue 2200 ore. Nel grafico non è inclusa la Corea del Sud, in cui le ore di lavoro procapite sono addirittura 2800.

Nell’asse delle ordinate è indicato il PIL procapite dei vari Paesi, riferito al 2001. La produttività e il reddito sono inversamente proporzionali, oppure si può dire che chi guadagna già molto non è costretto a lavorare ulteriormente. Rispetto al sentire tradizionale, che considera la propensione al lavoro come una virtù, la situazione reale è invece opposta.

Se ne può avere una dimostrazione considerando molte industrie tecnologiche cinesi, che pur potendo servirsi di tecniche avanzate e di processi automatizzati, preferiscono il lavoro manuale, perché questa modalità non richiede investimenti massicci e aumenti dei costi di produzione insostenibili per molte aziende.

Tuttavia per poter procedere a un upgrade esistono delle condizioni necessarie, prima fra tutte che la società sia già sufficientemente ricca. La situazione appena descritta infatti è tipica di quando il costo del lavoro è basso, come si può notare nell’abitudine dei cinesi di dedicarsi al lavoro anche duro per un compenso minimo. Il motivo principale della relativa arretratezza e basso valore aggiunto del comparto industriale cinese è la popolazione troppo numerosa e troppo dedita al lavoro. Ossia, il troppo lavoro ha danneggiato la Cina. Come dico da diversi anni, chi vuole rendere un buon servizio alla Cina dovrebbe iniziare a riposare di più e ad andare più spesso in vacanza.

Come sa chi ha studiato economia, quando la paga oraria è bassa e una piccola innovazione tecnologica può far sì che essa cresca, aumentano gli incentivi all’innovazione almeno di livello base. Nei Paesi occidentali, dove la paga è già alta, anche le innovazioni hanno un costo proporzionalmente più elevato. Quindi il grafico può dare anche l’indicazione che la condizione preliminare per l’upgrade industriale è che la società sia già ricca. Se le paghe sono troppo basse è improbabile che si sviluppi un’industria ad alto valore aggiunto.

Per questo motivo negli ultimi 20-30 anni il dibattito sull’upgrade industriale in Cina è stato piuttosto ridotto, mentre negli ultimi anni le aspettetive e la conoscenza sull’argomento cominciano a migliorare.

Tuttavia la ricchezza non costituisce da sola condizione sufficiente per promuovere l’upgrade. Nel caso della Cina un ostacolo è l’ingombrante intervento della politica e del governo nell’economia, che genera circolazione di denaro anche di ampie proporzioni ma quasi sempre di scarso valore reale. Quindi l’upgrade industriale non può essere trainato da investimenti di natura governativa o politica.

Un’altra sfida è rappresentata dal fatto che molta dell’imprenditoria cinese è statale o gestita dallo Stato: nonostante l’iniziativa privata rappresenti l’80% delle aziende cinesi, questa non riesce ad attirare finanziamenti proporzionali al suo peso, e anche l’accesso al credito è più complesso. Finché le imprese statali non vengono privatizzate è più difficile che avvenga l’upgrade.

Infatti le banche e il mercato obbligazionario sono poco orientati alle imprese private, come anche il mercato azionario, i cui organismi di controllo richiedono alle imprese molte garanzie patrimoniali (in beni tangibili) prima di consentirvi l’accesso. Si può ben intuire che per esempio le case farmaceutiche o le grandi aziende basate su internet, come Tencent, non richiedono grandi infrastrutture, e obbligare queste aziende a convertire parte del patrimonio liquido in beni immobili le priva delle necessarie risorse da dedicare all’innovazione.

Un altro ostacolo all’upgrade sono i tribunali: la legge cinese non protegge adeguatamente le imprese che detegono diritti di proprietà intellettuale e brevetti, in quanto l’onere della prova è a carico del detentore del diritto intellettuale. Un sistema così strutturato favorisce indirettamente chi lede i diritti d’autore.

Dal punto di vista macroscopico, le imprese in Cina devono inoltre concentrare l’allocazione di risorse su un core business unico, senza disperdersi in attività troppo eterogenee. Per esempio, molte delle aziende che si sono quotate in borsa negli ultimi anni, elettroniche e persino aerospaziali, hanno tutte investimenti negli hotel e nell’immobiliare. In un’ottica di upgrading ciò rappresenta una debolezza, in quanto non permette a queste aziende di competere con altre che concentrano professionalità e potenziali su un singolo obiettivo.

Se in passato, durante le fasi di crescita più impetuosa, la diversificazione poteva essere considerata vincente, adesso, con un rallentamento strutturale dell’economia, la competitività premia le imprese che sanno meglio orientare il proprio ambito di azione e che dispongono di maggiore liquidità, le sole che più probabilmente faranno un salto di qualità verso l’upgrading.

Immagine: fonte nell’articolo stesso.