Imparare il cinese… in mille modi (IV parte)

Sin da bambina i simboli e l’Oriente hanno sempre esercitato su di me una magica e morbosa forza attrattiva.

Sin da quando, a otto anni, trovai per puro caso nella credenza dimenticata dei nonni dei vecchi libri di narrativa, le cui storie avevano tutte come ambientazione Paesi asiatici. Sin da quando, poiché avevo oramai divorato e rivisitato mentalmente ogni angolo di quelle storie, i miei genitori mi fecero trovare sotto l’albero di Natale una versione semplificata del Mahabharata, che divenne ben presto, per la ragazzina undicenne qual ero, una vera e propria ossessione. Infatti, da lì ad acquistare un piccolo dizionario di Sanscrito, trovato per puro caso in libreria, il passo fu breve.

Se fosse vero che esiste una specie di disegno nelle nostre vite, se esse non sono soltanto affidate al caso, è come se quel disegno cominciasse ad essere tracciato in me da allora, da quando il fascino esoterico della scrittura indiana Devanagari, i cui rudimenti apprendevo man mano dal dizionario, cominciò a contagiarmi.

Quella scrittura misteriosa mi incuriosiva, mi affascinava e mi riempiva di orgoglio la consapevolezza di riuscire a comprendere anche solo brevi parole e semplici frasi.

La mia attrazione per le “scritture altre” – così mi piace definire i sistemi di scrittura non alfabetici – passò successivamente al greco antico, quando iniziai il liceo classico, e da allora capii che ne avrei volentieri amate ed esplorate altre.

Mi piace pensare al mio primo incontro con la lingua cinese come a un fatto fortuito, casuale, capitato quasi per distrazione, ma in qualche modo misteriosamente programmato.

Tutto cominciò dalla scelta di inserire nel mio piano di studi universitario un esame di Sinologia, scelta motivata dall’ intenzione di arricchire le mie conoscenze di studentessa di Antropologia con l’universo culturale cinese che mi aveva da sempre attratto.

Era necessario per l’insegnante partire dai caratteri per spiegare i concetti della letteratura cinese che apparivano ai nostri occhi così oscuri e remoti. E quei caratteri mi parvero da subito ostili, severi ma irresistibilmente eleganti, intrisi di una forza simbolica e di una concentrazione semantica che non avevo ancora rintracciato nelle forme di scrittura che mi erano note. In quel momento la lingua cinese mi tirò il primo schiaffo di una sfida a cui non seppi resistere,così dopo poco più di un anno, terminata la Triennale, iniziai a frequentare un corso di cinese all’Università.

Inizialmente quei simboli oscuri risultavano ai miei occhi indecifrabili, impossibili da codificare e trascrivere. Le lezioni scorrevano veloci e faticavo a seguirle. Ma un pomeriggio di novembre pensai che non mi sarebbe piaciuta l’idea di perdere quella sfida, che dovevo vincere quella battaglia, violare i segreti di quella scrittura e irrompere nel suo territorio spinato in cui convivono ordine, ritmo, musica, sintesi, forza e maestosa bellezza. Così, mentre comprendevo e acquisivo le regole dell’ordine dei tratti, a poco a poco il mistero si faceva intelligibilità; quel linguaggio inizialmente percepito come cifrato e incomprensibile diveniva a un tratto logico, coerente nella sua efficacia icastica. E così 爸爸 (papà), la prima parola che scrissi dopo molta fatica, fu automaticamente seguita dalle altre.

Le sfide non terminarono, piuttosto aumentarono nel corso degli anni e con l’aumentare delle conoscenze sulla lingua.

Le più ardue riguardarono la comunicazione e la memorizzazione dei caratteri. Nella memorizzazione giocarono un ruolo cruciale i radicali, unità grafiche essenziali che rapidamente mi collegavano a una sfera specifica di significato (氵: acqua, 土: terra ecc.) e facilitavano non poco il processo di apprendimento e la lettura.

Prima di raggiungere un livello minimo di comprensione e successivamente un’accettabile competenza comunicativa ci vollero mesi di studio assiduo, reso faticoso dai momenti di scoraggiamento con i quali si ha necessariamente prima o poi a che fare quando si studia il cinese. Ma la fatica e la frustrazione passarono rapidamente in secondo piano quando la gioia e la gratificazione provate nell’esser compresa e nel comprendere durante una conversazione mi ripagavano degli sforzi fatti e dei sacrifici, regalandomi un’esperienza umana unica che ripeto ogni volta come un rituale piacevolissimo.

Guseppina Corrado

Leggi anche la Parte I, Parte II e Parte III!